DeletedUser18685
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I MISTERI hanno il vezzo di rivelare pessime verità, come la paura precede l'ORRORE.
Il Manoscritto della principessa Myciena si rivelava sempre più un rebus dai viluppi intricatissimi. Gli studiosi (linguisti, antropologi e semiologi) riuniti in una sorta di conclave segretissimo, nei sotterranei di ROSSLYN, oramai disperavano di poter sciogliere il mistero che gravava sul testo: chi era l'uomo che accompagnava la bella principessa Myciena, e perché lei ne nascondeva l'identità? Era come se l'uomo esercitasse sulla principessa un influsso demoniaco, una malia perturbante, un sortilegio dal quale la principessa non poteva sottrarsi. Le sue sillabe scivolavano nella sua mente come una sottoveste di seta, mentre s'adagia dolcemente, quasi a infondere imperscrutabili e irrefrenabili desideri. Gli scritti evidenziavano una dirompente padronanza sulla bella Myciena... un potere sotterraneo, misterioso, gli artifici diabolici d'un negromante. Furono invitati a intervenire al sinodo, anche alcuni dei più eminenti criptologi, poiché intuirono nel testo vi fosse nascosta, attraverso l'uso di metodi criptici, l'identità dell'uomo, celata forse in quei 4 nomi, che l'autore dice di avere impersonato... ma più si arrovellavano sul testo, più il testo si negava. Solo una evidenza si rivelò agli studiosi: i 4 nomi di cui parla l'uomo misterioso prendono forma tutti dalle stesse lettere.
A Voi il testo:
" L’uomo porta tra le sue tante piaghe l’infamia del proprio destino.
Ed io, abbozzo d’uomo in forse tra due fuochi, l’essere e il non essere, ne ho avuti in sorte più d’uno.
Chi io sia poco importa.
Chiamami Ismaele, Giufà, o Nessuno (sarebbe il giusto tributo a una natura dedita al naufragio, una inquieta predisposizione alla deriva), anche se l’anagrafe asserisce di custodire nell'ombra dei suoi registri un nome: Draco El Crasimi; pensando con ciò di conoscere l'identità d'un uomo. L'errore, mia amata, ci abita nell'attimo in cui pensiamo d’esserne immuni, e si impone col rigore e la dedizione di chi ha fatto del torto il proprio vanto. L’identità, mia incauta rosa, è uno specchio: implacabile dispensa solo menzogne.
In quella notte di pioggia prima della battaglia, a Mont Saint Jean, dove gli alti faggi smossi dal vento nutrivano di incubi l’animo dei tanti soldati, io ero Remi Radolsciac, un ussaro al soldo dell' Imperor. Nella pianura ai piedi del Tabor, sulla via di Damasco, la terra brunita e arsa dalla canicola s’animava in spirali dense di rabbia sotto la sferza degli zoccoli dei destrieri, mentre irrefrenabili come ippogrifi divoravano il terreno al galoppo. Sulla lama che brandivo scintillavano le lettere: Marcos Da Lerici (intuivo allora come le presentazioni siano un ufficio inderogabile quanto il commiato, aldilà della natura dell'incontro). Timoniere sull’Adventure Galley di Kidd, col nome di Mirco Calardesi, navigavamo al largo delle coste del Bengala (sull’albero con arroganza e disprezzo sventolava la Jolly Roger); banditore hashishiyyun per le lande di Persia fuori le mura di al-Amut (1) (armato di scure danese a cui erano legati diversi pugnali), precedevo il passo di Shakik (2), come la paura precede l’orrore.
Altre ancora sono state le mie vite, altre le città, sui quali labirinti ho imbastito i miei naufragi; e in ogni tempo e luogo ho versato nomi, per adottarne di nuovi altrove (col relativo corredo di imposture).
Il mio è solo un altro dei molti, troppi nomi con cui vivo la medesima vita. Una esistenza celebrata da identità di comodo, sempre infedeli. Non sono che uno spaccio di vite irrisorie, infinitesimali garbugli di istantanee appena percepite, le tracce scomposte di ombre mentre scivolano piano nella nebbia; il passo malcerto di mille incerti destini.
Lasciamo dunque i nomi alle loro inadempienze, essi non sono meno vani di chi li indossa; moltiplicano come specchi le esistenze, in una scopiazzatura continua e irriverente. Perciò, cuore del mio cuore, lasciami cullare nell'inesistenza, come chi intrattiene con la vita un alterco, una epidermica inimicizia. Rivestire l’anima d’una velatura d’indefinito, questo voglio, essere appena un bisbiglio, una nota atona che filtra piano i tessuti della tua natura, così da rivelarti la mia, in absentia.
Chi io sia poco importa.
Ma COSA sono? ... "
Questi i passi iniziali del 2° frammento di pergamena, trovato appena dopo il primo, pubblicato precedentemente.
Poco più avanti l'uomo dice alla principessa: "Oltre l’oblio dei secoli ho avuto i miei natali, il mio vagito (per molti un ululato) perde la sua eco tra le nebbie del tempo. La mia memoria è un nido d'ombre, un nugulo d'arpie storpie."
Proseguendo lungo il testo, l'uomo racconta a Myciena, di essere stato, un tempo immemore, adorato in Arcadia col nome di Lykos, per i Romani era stato un versipellis, tra i Celti un denvleiz. La sua natura proteiforme fu il sortilegio e la condanna d’un gioco a tre; l’abiezione senza rimedio d’una congiura, la volontà intima quanto esecrabile d’un postribolo di fattucchiere (Selene, Artemide ed Ecate) intente nottetempo a versargli nelle vene una maledizione.
Poi chiude dicendo:"Mia cara... ogni uno a suo modo porta con se il proprio bagaglio di orrori, e la pena che questi recano."
Quindi una maledizione era il peso che quell'uomo portava addosso... ma quale?
Anim@mante
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