tanto per scrivere: L'Ultima prova

DeletedUser841

Guest
Il gruppo di spedizione mi congedò come da tradizione a qualche decina di leghe dalla Fossa, alla frontiera di Irule, dove l’ultimo Grande Albero si ergeva orgoglioso a difesa. Il Ranger in carica mi lanciò un’occhiata eloquente, un misto di compassione e orgoglio, appoggiò a mo di rito la mano destra sulla mia spalla mentre con la sinistra mi invitava ad accettare l’Ultima Freccia: l’augurio, anzi la speranza, di non doverla mai sfoderare dalla faretra e di riconsegnarla al mio ritorno.
È il momento più alto della vita di uno Scout. La sopravvivenza. Passi tutta la giovinezza tra foreste e manuali, apprendendo tutti i segreti della vita al di là delle mura tra bestie e foreste. I trucchi e le trappole, le corse e le imboscate, i silenzi e i sibili dei tuoi dardi mortali. I migliori senza dubbio. La mia gente sarà anche superba, magari arrogante, ma le cronache non insegnano altro: non esistono tiratori migliori, cacciatori più silenziosi o assassini più letali. Da giovani ci riempiono la mente con queste celebrazioni, e noi le accettiamo di buon grado, come verità assolute, d’altronde come non potremmo? Ci ispirano coraggio e determinazione, ci permettono di amare noi stessi e il nostro popolo, la cui simbiosi con la natura ci assicurò rispetto e timore presso le altre stirpi. Tanto dobbiamo a quel velo, rigoglioso e perfetto, che sempre ci protesse dalla vista delle nostre vittime, e nemici.

Mentre i mantelli del Ranger, e dei Cacciatori di scorta, sparivano in un soffio di brezza tra gli arbusti, cominciai ad appellarmi a tutta quella determinazione. Riposi la freccia nella faretra, passai le dita sulle rune intagliate nella corteccia del Grande Albero, mi coprii il capo con il cappuccio e diedi inizio alla prova finale. L’ultimo passo di una preparazione interminabile, l’ultimo sacrificio di un processo tanto intenso da non permetterti di capire quanto tempo sia passato.
Avrei dovuto camminare per settimane, avvicinarmi il più possibile alla Fossa, dove avrei avuto l’opportunità di rintracciare uno dei loro Campioni e strappargli di dosso l’idolo che mi avrebbe una volta per tutte confermato tra le schiere d’elite dell’armata elfica.
I giorni passavano e il paesaggio attorno a me cambiava sempre di più, pareva che la vita non avesse altro desiderio che scappare lontano da quegli esseri immondi. Una volta lessi, non ricordo più dove ne quando, di una leggenda, la storia secondo cui, una volta erano come noi. Elfi degenerati nello spirito e nel corpo, consumati da un profondo odio: non lessi altro, di certo dovetti soffocare un conato al leggere una tale eresia.
Per grazie divina ancora qualche lupo solitario si aggirava per quelle lande desolate, per lo più anziani in cerca di un giaciglio dove lasciarsi morire. Non vi era neanche bisogno di dargli la caccia, alcuni di loro, rintracciandomi tra i rovi, parvero mostrarmi il fianco, quasi fossi un liberatore anziché un carnefice: l’afflizione di una vita culmina nell’annichilimento dello spirito di sopravvivenza, quei lupi non avrebbero aspettato un minuto di più, accolsero le mie frecce come doni.

Seguivo alcune tracce da qualche giorno, la direzione puntava alla Fossa, il cielo si faceva scuro e fumoso ogni giorno di più: la strada era giusta. Dovevano essere in sei, forse sette; le impronte eran troppo grosse e profonde per trattarsi ricognitori, senza contare i segni accidentali sui tronchi e i rovi semi distrutti, quasi certamente si trattava di un plotone di guardia: i peggiori, scansionano grosse aree alla ricerca di cibo, sventurate carovane e soprattutto, noi. Gli orchi conoscono bene il nostro rito di iniziazione: per generazioni novelli dell’accademia hanno battuto in solitaria questi boschi mortiferi e stantii, braccandoli per dimostrare valore e coraggio, nella forma di una medaglia di zanne e artigli.
Ormai anche le bestie moribonde erano scomparse, i miei pasti, già di per se abbastanza scarni, si facevano sempre più viscidi e maleodoranti, e le poche ghiande sapevano di marcio: a questo eravamo preparati. Continuavo a seguire le tracce, avevano deviato dal tragitto principale; non sembrava avessero intenzione di rientrare, e io di certo avrei dato la vita pur di non vedere quell’ammasso osceno e depravato che chiamavamo Fossa: in antiche pitture si presenta come un’abominevole fornace di fumi velenosi, rossa di fuoco e piena di fucine, si diceva fosse un grosso cratere, un cantiere nanico, assaltato e poi occupato dalle orde orchesche eoni fa, solo i divini sanno di quali atroci scempi furono vittima i laboriosi pietrai della cava.
La stanchezza cominciava a farsi sentire, eran passate due settimane, il mio fisico reclamava riposo, o quanto meno del cibo degno di tal nome. La mia mente già inquieta, venne turbata ulteriormente nel trovare i resti irriconoscibili di un compagno perito nel tentativo: non dirò qui quel che vidi in quanto le parole non basterebbero per descriverne l’orrore, ma era chiaro che quei maledetti adoravano lasciare messaggi più che espliciti a quanti di noi non riuscirono ancora a scovare. È la selezione, sapevamo a cosa andavamo in contro: a questo eravamo preparati.
L’ansia divenne rabbia, la rabbia energia, l’energia mi tramutò in bestia. Come un felino mi rimisi in marcia dopo aver slegato e coperto quell’ ammasso di carne con la nera terra. Obliai il mio nome, strinsi l’arco nella mano sinistra e cominciai a correre come solo il mio popolo sa fare: veloce come un cervo braccato e silenzioso come l’aquila sulla preda. Aguzzai i sensi. L’olfatto mi guidava fra tronchi abbattuti e rami rinsecchiti, sentivo distintamente il puzzo di sangue e sudore; ben presto grugniti e urla giunsero ai miei orecchi, nella corsa sfrenata viravo ogni dove, accostandomi leggero come uno spettro agli alberi squarciati: c’ero quasi, ormai avevo abbondato le tracce che seguii per giorni, facendo mio l’obiettivo dello sconosciuto fratello. Corsi e corsi, quasi volai da una roccia all’altra mentre l’ignaro manipolo ancora ruggiva fomentato dalla mattanza, finché non giunse il momento di appellarmi ai miei occhi. Marciavano alla mia destra, ad un paio di decine di metri di distanza, cinque di loro a qualche passo dallo sciamano e dal mastodontico Campione: l’elmo di corna ben saldo sul capo, macabri trofei pendevano dalla cintura e, appoggiato su una spalla, il grosso martello dentellato, simbolo di comando. Ricordai gli anni dell’accademia nel fitto della foresta Bagliore, ricordai quel nome, che i miei compagni mi affibbiarono per rispetto: Teralas dalle Dita Fatali. Avrei potuto eliminare la testa del distratto gruppo con estrema semplicità, ma non ci sarebbe stata soddisfazione nel lasciar scappare in preda al panico quelle stolte sentinelle, incapaci di fronte alla maestria elfica della furtività. Alzai il braccio, piegai il gomito, le dita scorsero lungo le piume dei miei dardi, ne afferrai uno, stendendolo dritto davanti il mio naso, l’arco si curvò gentilmente assecondando il mio volere senza opporre resistenza, quasi condividesse l’ira vendicatrice che mi pervadeva l’animo. Seguirono pochi istanti di concentrazione, un respiro profondo, poi il sibilo mortale; una delle sentinelle parve rendersi conto della melodia letale che tagliò l’aria mentre lo sciamano si accasciava sui piedi del Leader con il cranio trafitto. Feci intendere al Campione orchesco quanto la sua vita dipendesse dalla mia volontà. Non ebbero il tempo di organizzarsi, forse neanche di capire che uno di loro già giaceva in terra, che altri due armoniosi sibili forarono le gole della coppia in ultima posizione. Anticipai le loro mosse, non potevano che dirigersi dietro il grosso ammasso di rocce: ne scoccai un’altra così che fu l’orco a intercettarla quasi desiderasse il cuore trafitto. Gli ultimi due trovarono riparo, ma ignoravano ancora la mia posizione, come biasimarli? Corsi verso la roccia, con un paio di salti raggiunsi la cima solo per volare dall’altra parte; mentre i loro volti deformati dal terrore e dalla natura tentarono di dare forma all’ombra che li sovrastava, il più piccolo dei due cadde.
Ed eccomi li. Davanti all’agognato obiettivo, il permesso di tornare in patria, tra le accoglienti foreste della mia casa. Gli occhi del campione si accecarono, ruggì come una bestia in preda alla più disperata rabbia, roteò il martello in aria e si lanciò in una carica scatenata: ci avevano parlato di questa capacità, “alcuni di loro trascenderanno i propri limiti fisici e mentali pur di ottenere vittoria e salvare la vita”. Fui quasi lusingato. Macinò furiosamente i metri che ci separavano. L’arco era già teso e quelle sue fauci spalancate accolsero la mia freccia in un mugolio di morte. Anche a questo eravamo preparati.
 

DeletedUser

Guest
Mado' che lungo..ora lo leggo

Bello veramente
 
Ultima modifica di un moderatore:

DeletedUser

Guest
Meraviglioso! Coinvolgente, da lasciare senza fiato in attesa dell'ultima riga..
Mi piacerebbe sapere se è scritto di getto e ispirazione o ha un lungo lavoro alle spalle (ma il risultato in ogni caso non cambia!)

Complimenti :thumbsup:
 

DeletedUser841

Guest
grazie! come si dice.. la notte porta consiglio e se son fortunato la mattina dopo ricordo ancora qualcosa :)
 

DeletedUser17392

Guest
Lo dico con sincera ammirazione: questo è talento puro!!! Non lasciarlo appassire: coltivalo, e potrebbe darti enormi soddisfazioni!
I miei più sentiti complimenti!!!!
 
In cima